“Il tuo nome è donna – Incontri”, al via residenza artistica con Angelo Campolo a Naso
Una settimana di incontro e di scambio di esperienze, per raccontare la percezione dell’altro attraverso la “reinterpretazione” dell’attore e del drammaturgo: c’è tempo fino al 10 marzo per iscriversi alla residenza artistica “Il tuo nome è donna – Incontri”, ideata e diretta da Angelo Campolo, attore e regista, e realizzata insieme con Sarah Lanza, danzatrice e coreografa.
Insieme al laboratorio curato da Rosetta Sfameni (che si tiene ogni sabato dalle ore 16:30 alle ore 18:30) e agli appuntamenti del cartellone coordinato da Oriana Civile, “Il teatro siamo noi – #diversamentegiovani”, è una delle iniziative che stanno assicurando alla città di Naso e al suo teatro, riaperto nel 2017 dopo 67 anni di chiusura e gestito in house dal Comune, un ruolo di primo piano nel panorama culturale del territorio.
Quali saranno le attività, e quali gli obiettivi da raggiungere, della residenza artistica che si terrà dal 17 al 23 marzo a Naso? Angelo Campolo lo racconta nell’intervista realizzata da Lisa Bonasera.
«Il progetto nasce dal desiderio di creare un processo creativo condiviso intorno al racconto delle persone che hanno provocato un cambiamento nella nostra vita. Piccolo o grande che sia stato. E di vedere poi come questo racconto possa vivere in scena. In un momento in cui anteponiamo il nostro io su tutto, penso che possa essere una buona “cura” quella di concentrarci, anche teatralmente parlando, sugli altri per riflettere indirettamente su di noi. Un passaggio che inscrivo in un momento del mio lavoro in cui, da quasi due anni, ho iniziato un percorso di scrittura ispirato ad incontri reali della mia vita, rimettendo in discussione molte cose fatte fino ad ora. Da anni lavoro a contatto con ragazzi stranieri e italiani nelle comunità di recupero o accoglienza. Ma il mio approccio, attraverso i laboratori, mi aveva spinto sempre ad avere come riferimento iniziale un quadro generale più ampio. La fame, l’incontro con lo straniero, la libertà. Ultimamente ho sentito l’esigenza di concentrami di più sulle persone, sulle loro storie, e lasciare che l’universalità del mio lavoro nasca come conseguenza, non come premessa. Per questo a giugno 2019 ho riscritto da zero il primo studio su “Stay hungry” e lo spettacolo ha preso la forma definitiva che porto in giro in Italia con la quale sarò in scena da voi a maggio. Parallelamente ho iniziato un percorso di studio sulla didattica all’Università Bicocca di Milano per approfondire dinamiche e metodologie in ambito pedagogico. Sono felice di questo nuovo corso che sta prendendo il mio lavoro e “Il tuo nome è donna” sono certo che rappresenterà un bel momento di condivisione con chi può essere interessato a voler allenare la propria attenzione alle persone che abbiamo intorno a noi».
Una rielaborazione personale della narrazione che dissolve le entità “io” e “tu” per aprirsi all’intersoggettività… potrebbe valere anche per i generi “lui” e “lei”?
«Spero e mi auguro di sì. Questa dissoluzione di entità (parlo della scena) naturalmente è una meravigliosa illusione, un punto d’arrivo, se vogliamo, al quale la magia del teatro può giungere, se riesce a mantenersi in equilibro tra diversi elementi».
Quindi a cosa è dovuta la scelta di attribuire un nome e un genere ad un progetto che crea incontri da sé stessi verso gli altri?
«Penso che i percorsi laboratoriali di questo tipo debbano nascere e svilupparsi aprendo delle sfide, svincolati dall’obbligo di confezionare un prodotto, un risultato. Questa esperienza mi auguro che sia occasione di apprendimento e scoperta per tutti coloro che vi prenderanno parte, me compreso. Detto questo il modo in cui raccontiamo il femminile è un argomento importante del nostro tempo. Un argomento che rimette in discussione le certezze e i punti di vista su molte cose. Nessuno credo possa dirsi esente dalla questione, perché il mondo, la nostra stessa vita è determinata dal femminile, al di là delle categorie uomo/donna».
La formula della residenza artistica: cosa significa e che valore aggiunto può dare ai luoghi che ospitano gli artisti?
«La residenza artistica è una full immersion. Consente una concentrazione unica perché crea abitudini speciali, ti porta a cambiare i tuoi ritmi quotidiani e a dover entrare in contatto con un sistema diverso dal tuo. Un tempo in cui ritagliarsi uno spazio vero di riflessione su e per stessi».
Come mai la scelta è caduta su Naso e sul Teatro Alfieri?
«Quest’estate ho assistito ad uno spettacolo di Oriana Civile al Teatro 3 Mestieri di Messina, una bella realtà che con coraggio ha creato uno spazio culturale in un quartiere decentrato di Messina. Mi è piaciuto molto il lavoro di Oriana e ho scoperto la “rinascita” che sta portando avanti il Teatro Alfieri di Naso. Le ho quindi proposto l’idea della residenza, un progetto che realizzo grazie all’associazione MTB di Gaetano Majolino con il sostegno del fondo PSMSAD dell’Inps. Lei ha accolto con entusiasmo l’iniziativa e ci siamo subito messi al lavoro. Insieme con me c’è Sarah Lanza, danzatrice, coreografa e insegnante di danza con tanti anni di esperienza didattica alle spalle».
Chi sono finora i candidati che hanno fatto richiesta per aderire alla residenza artistica?
«Fino ad oggi abbiamo raccolto più di 25 candidature, la maggior parte da fuori Sicilia. Un dato che mi sorprende, ma di cui sono contento. Sono giovani attori e drammaturghi molto qualificati, con alle spalle scuole riconosciute e belle esperienze lavorative».
Lo spettacolo “Stay Hungry – Indagine di un affamato” è in cartellone nella rassegna “Il teatro siamo noi – #diversamentegiovani” al Teatro Alfieri il 24 maggio. A quale riflessione rimanda spontaneamente la definizione “diversamente giovane”?
«Beh, forse è complicato da spiegare, non sono un sociologo. Credo si riferisca ad una generazione di trenta/quarantenni, ma anche oltre i quarant’anni, che accede “da giovane” al mondo della rivoluzione digitale. In tutti i campi, chi più chi meno. Se fossero rimasti i criteri del sistema precedente, a livello economico e produttivo, saremmo tutti dei professionisti avviati. In realtà lo siamo, soprattutto a livello di qualifiche e percorsi formativi. Ma la crisi e soprattutto il nuovo sistema digitale ha rimesso tutto in discussione. In particolare la visione a lungo termine. Il teatro non credo possa morire mai, ma attraverserà, come tutto, una trasformazione. Mi ha molto colpito leggere l’intervista di Massimo Popolizio, attore simbolo del “sistema” teatrale e culturale che ha sempre ragionato per categorie (attore di prosa, attore televisivo, attore di ricerca), ammettere che tutto è cambiato. Che oggi bisogna aprirsi a più ambiti contemporaneamente, sempre mantenendo alto il livello di professionalità».
Si potrebbe dire che Angelo Campolo si sente un “diversamente giovane”?
«Per forza! Da qualche mese ho superato la soglia dei fatidici 35 anni, età limite per accedere a molti bandi».
Teatro pubblico tra intrattenimento e produzione: qual è la situazione nel nostro territorio?
«Il nostro territorio parte molto avvantaggiato dal punto di vista dei contenuti, degli artisti, del mondo che vogliono raccontare. Penso che sia una ricchezza unica e invidiabile. Non lo dico per banale retorica, ma credo davvero che un artista siciliano, che per forza di cose deve affrontare mille peripezie per poter vivere di questo mestiere, parta con un’energia importante. Il problema è capire come arrivare al traguardo o almeno essere in gara. E in questo siamo molto penalizzati dalla mancanza di un sistema di riferimento. Non solo in Sicilia. Fino al decennio scorso ancora resistevano i vari circuiti estivi, i cartelloni comunali, provinciali, eccetera. Tutto sparito. Un giovane oggi che voglia aprire un’associazione culturale non ha più questi interlocutori. Ma è inutile rimpiangere il passato. Probabilmente gli interlocutori adesso sono diversi e un teatrante deve cominciare a chiedersi quale sia il suo ruolo oggi dando molte meno cose per scontate».