La dedizione e l’attenzione che siamo soliti riservare ad anziani e malati, ai piedi del letto, negli ultimi giorni della loro vita, consente loro di affrontare meglio il trapasso. Morire circondati dai propri cari o, in mancanza di questi, da medici e infermieri umanamente impegnati, rassicura, solleva, conforta e aiuta a trovare risposte a ciò che preoccupa e spaventa, proprio in virtù del fatto che con la morte avanza prepotentemente l’ignoto e la dissoluzione di ciò che si è.
Questa pratica, in tempi di Covid, viene meno quando viene varcata la soglia della terapia intensiva e la situazione, via via, si fa sempre più critica. Niente mani che si stringono forte nell’ultimo saluto, nessuna carezza o bacio sulla fronte, nessun abbraccio, nessuna promessa. Si muore da soli, in ospedale, lontano dai propri affetti, in quelle “fredde” camere ermetiche alle quali hanno accesso solo i sanitari. I pazienti muoiono senza quello spazio di cura rappresentato dall’addio dei loro cari i quali subiscono, impotenti, l’interruzione di un legame, rimanendo anch’essi soli nel proprio dolore.
La cronaca quotidiana racconta che il coronavirus aumenta la consapevolezza della paura di morire, nel momento in cui si mette piede sulle ambulanze del 118 per essere trasferiti in ospedale, e toglie a molti (i meno fortunati) la possibilità di vivere l’ultimo momento: una separazione dignitosa, un onorevole addio. Le reazioni di queste giornate, le riflessioni di molti, l’esperienza drammatica di tanti – che anche chi scrive ha vissuto da vicino – dicono che la ricerca di senso del tempo che rimane da vivere sta nelle relazioni che contano. Le relazioni che contano, l’amore in primis, sono ciò che offrono senso al tempo. Sempre. Quando si è sani e quando si è malati.