Nel processo Capaci bis riaffiora il ruolo del mistrettese Pietro Rampulla

di Giuseppe Salerno
15/06/2022

Si torna a parlare dell’attentato a danno del giudice Giovanni Falcone nel corso del processo Capaci bis in cui la Corte di Cassazione ha confermato gli ergastoli per Salvatore Madonia, Giorgio Pizzo, Cosimo Lo Nigro e Lorenzo Tinnirello. I giudici della seconda sezione penale di piazza Cavour hanno rigettato i ricorsi degli imputati: confermato ‘in toto’ la sentenza di secondo grado pronunciata dalla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta il 21 luglio 2020. Anche in primo grado, nel 2016, il processo si era concluso con Madonia, Lo Nigro, Pizzo e Tinnirello condannati al carcere a vita.

Secondo l’accusa, gli imputati avrebbero svolto un ruolo fondamentale per l’organizzazione dell’attentato che costò la vita, il 23 maggio 1992, al giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e agli uomini della sua scorta, in particolare in relazione all’esplosivo che venne utilizzato.

Tornando a parlare della strage di Capaci riemergono le rivelazioni del pentito Gioacchino La Barbera, relative alla fase di ricostruzione del congegno di attivazione della carica, avvenuta durante lo stazionamento degli attentatori nella casa di Santino Di Matteo, in contrada Rebottone, un po fuori dal centro abitato di Altofonte. In tali incontri fra la fine di aprile e i primi di maggio del 1992 – dichiarava La Barbera – erano soliti partecipare Bagarella, Brusca, Gioè e un tale che Giovanni Brusca aveva fatto venire non appartenente alle famiglie palermitane, Pietro Rampulla da Catania.

Quest’ultimo in un incontro portò due telecomandi in una scatola di polistirolo dai quale egli stesso, in maniera artigianale, ne ricavò il radiocomando che azionò la carica che fece saltare in aria l’autostrada con il corteo di auto. l meccanismo si basava su un sistema molto semplice, costituito da una trasmittente deputata a lanciare il segnale a distanza e un apparecchio che, ricevutolo, dava via all’attivazione di un circuito elettrico collegato ai fili dei detonatori che erano stati messi in una frazione della carica determinando l’esplosione. La trasmittente – come si è visto direttamente dalle dichiarazioni del collaboratore – era costituita da un aggeggio di quelli generalmente usati per azionare i modellini di aeroplani, quindi facilmente reperibile in un qualsiasi negozio di giocattoli.

La ricevente era stata costruita interamente dagli attentatori: si trattava in pratica di una scatola di compensato molto sottile nella quale era stato allocato un motorino alimentato da una serie di batterie da 1.5 che al momento in cui veniva attivato, tramite il contatto stabilito da un chiodo che batteva su una lamella – una di quelle prelevate da una batteria piatta – determinava un contatto elettrico che veniva convogliato in un filo, al quale poi sarebbe stato collegato quello del detonatore collegato alla carica.

Malgrado l’artigianalità del congegno – emerge dai testi tratti dalla sentenza della Corte d’Assise di Caltanissetta – si può tranquillamente notare come lo strumento costruito sia stato frutto indubbiamente di una certa padronanza della tecnica in materia, ma anche che la sua costruzione non aveva richiesto l’impiego di competenze particolarmente elevate, essendo stato sufficiente applicare al riguardo le capacità di un semplice elettricista di buon livello.

La ricevente però doveva essere messa in uso, quindi collegata all’ultimo minuto poiché, come spiegava Pietro Rampulla al gruppo – riferisce La Barbera – esisteva una minima percentuale di possibilità che anche un telecomando di cancello di abitazione privata nei pressi dell’innesco avrebbe potuto interferire sulla ricevente facendo scoppiare tutto ancora prima di usare la trasmittente.

Pietro Rampulla, mafioso della famiglia di Mistretta, condannato in altro procedimento all’ergastolo, era legato a doppio filo a Nitto Santapaola. In fatto di esplosivi Cosa nostra lo considerava una vera e propria autorità. Non solo a Catania ma anche nelle province siciliane. In un interrogatorio anche il pentito Antonino Calderone, fratello di Pippo Calderone, componente della cupola regionale di Cosa nostra, assassinato nel 1978, racconta delle capacità del Rampulla in materia di esplosivi

 “Nell’estate del 1978 fui avvertito da mio fratello che aveva notato qualcosa di strano all’interno della sua auto. Io stesso potei vedere che sotto il sedile di guida c’era un pacchetto che potei giudicare dall’aspetto dinamite. Accanto al pacchetto c’era una scatola. Mi resi conto immediatamente che quel gesto non poteva provenire che da Nitto Santapaola. Mio fratello allora gli telefonò per vedere la sua reazione. Santapaola si incontrò con mio fratello e gli disse che avrebbe fatto intervenire qualcuno che se ne intendesse di esplosivi. E a intervenire fu Pietro Rampulla, vice-rappresentante della famiglia di Mistretta e implicato in episodi di terrorismo di destra. Rampulla si accorse subito di avere a che fare con un ordigno esplosivo azionato da un telecomando. Vidi che con un’estrema facilità Rampulla disinnescò l’ordigno, il che fece sorgere dei dubbi nell’animo di mio fratello poiché pensò che una tale conoscenza dell’ordigno poteva voler dire che quello ne era l’artefice”.

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