Processo Nebrodi, chiesti 1.045 anni di carcere per i 101 imputati
1.045 anni di carcere e 30 milioni di euro di confische. Sono le richieste di condanna richieste dalla Procura della Repubblica di Messina, guidata da Maurizio De Lucia, per i 101 imputati del maxi processo “Nebrodi”, scaturito dall’operazione del 15 gennaio 2020 denominata “Nebrodi”, con 94 arresti e il sequestro di 151 aziende agricole per mafia, una delle più vaste operazioni antimafia eseguite in Sicilia e la più imponente, sul versante dei Fondi Europei dell’Agricoltura in mano alle mafie, mai eseguita in Italia e all’Estero.
Pene durissime che seguono già un primo giudizio celebratosi al rito abbreviato con condanne elevatissime per alcuni imputati che, pensando di usufruire dello sconto di pena previsto appunto dal rito abbreviato, si sono visti infliggere anche 25 anni di carcere confermate poi in appello lo scorso mese.
Adesso la richiesta di condanne per il rito ordinario per un processo, preso il via il 2 marzo 2021, celebratosi in tempi record con un grande lavoro svolto dal Tribunale presieduto da Ugo Scavuzzo e dalla Procura guidata da Maurizio De Lucia con quattro PM che si sono alternati per ricostruire l’intera vicenda: Il Procuratore Aggiunto Vito Di Giorgio, i sostituti della DDA Fabrizio Monaco e Antonio Carchietti e di quello della Procura Alessandro Lo Gerfo.
Più di mille uomini della Guardia di Finanza di Messina e dei Carabinieri del ROS quel 15 gennaio assicurarono alla giustizia numerosi componenti di famiglie mafiose contestando loro reati che ruotano attorno al lucroso affare dei Fondi Europei per l’Agricoltura in mano alle mafie combattuto con forza con il cosiddetto “Protocollo Antoci”, ideato e voluto dall’ex Presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci. L’attività della DDA di Messina, guidata dal Procuratore Maurizio De Lucia, ha squarciato il velo di silenzi e omertà che avevano soggiogato e sottomesso per anni un intero territorio e la Sicilia intera.
Così scrivevano magistrati nell’ordinanza: “In gran parte, oltre quelli depredati, si usavano terreni liberi, presi a caso da tutta la Sicilia e da zone impensabili dell’Italia, usati, spacciati come propri, per le raffinate truffe delle associazioni……; e ancora: “….la mafia che ha scoperto che soldi pubblici e finanziamenti costituiscono l’odierno tesoro e come siano diminuiti i rischi pur se i metodi restano criminali…..; e ancora: “…il campo di maggiore operatività è divenuto il grande business derivante dalle truffe ai danni dell’Unione Europea, come detto più remunerative e meno rischiose”.
Un meccanismo interrotto proprio da quel Protocollo, recepito nei tre cardini del Nuovo Codice Antimafia e votato in Parlamento il 27 settembre 2015, che ha posto le basi per una normativa che consente a Magistratura e Forze dell’Ordine di porre argine ad una vicenda che durava da tanti anni. Di fatto, tentano di aggirarla e vengono scoperti.
Proprio su questo argomento il Giudice scrive nell’ordinanza dell’operazione Nebrodi che ha generato il Maxiprocesso e che ha portato alla sbarra gli imputati: “.... nel contesto che emerge nella presente indagine di truffe milionarie e di furto mafioso del territorio trova aspetti di significazione probatoria e chiavi di lettura di quell’attentato… Antoci si è posto in contrasto con interessi milionari della mafia”.
Il commento di Giuseppe Antoci, ex presidente del Parco dei Nebrodi
“Abbiamo colpito con un’azione senza precedenti la mafia dei terreni – dichiara Antoci – ricca, potente e violenta, ed è per questo che quella notte volevano fermarmi. Volevano bloccare l’idea di una legge nazionale e dunque tutto quello che sta accadendo oggi. La richiesta di condanna della Procura di oggi, a chiusura di due anni di processo, mi fa ben sperare in una sentenza altrettanto rigorosa ed esemplare. Io sarò presente all’Aula Bunker quando sarà emessa la sentenza e li guarderò dritti negli occhi, uno per uno, senza paura, senza indugi e con l’unica forza che ho: quella dello Stato” – continua Antoci.
“Mi hanno tolto tutto, libertà, serenità, mi hanno costretto ad una vita complicata costringendo la mia famiglia a vivere in una casa blindata e presidiata dall’Esercito. Due cose però non sono riusciti a togliermi: la vita e la dignità e grazie a quest’ultima che attenderò la sentenza per poterli guardare negli occhi e poter dire loro: stavolta abbiamo vinto noi – conclude Antoci.