La Direzione investigativa antimafia di Catania e Messina ha eseguito un provvedimento confisca di beni, emesso dal Tribunale di Catania nei confronti di Giuseppe Scinardo, imprenditore messinese ritenuto uomo di fiducia del capo del potente clan di Mistretta, Sebastiano Rampulla. I Rampulla sono una famiglia «pesante» nell’ambito degli equilibri di Cosa nostra: il fratello di sebastiano, Pietro Rampulla, è l’uomo condannato perché accusato di avere confezionato la bomba usata per la strage di Capaci.
Al figlio di Giuseppe Scinardo, Mario, nell’aprile scorso sempre la Dia lo scorso mese di aprile aveva già confiscato beni per 200 milioni di euro.
Il patrimonio confiscato a Giuseppe Scinardo ha un valore di 50 milioni di euro tra società, ditte individuali e immobili, terreni e fabbricati.
In totale ci sono 324 terreni – per una estensione complessiva di circa 700 ettari – nei comuni di Militello Val di Catania, Mineo e Vizzini, in provincia di Catania, e Capizzi, in provincia di Messina; trentatré fabbricati, tre aziende, operanti nel settore della coltivazione e dell’allevamento del bestiame e sei veicoli tra i beni.
Il decreto di confisca è stato eseguito anche nei confronti della moglie Scinardo, Annina Briga e della figlia Carmela, alle quali i beni erano anche intestati.
Giuseppe Scinardo è indiziato di appartenere alla cosca mafiosa riconducibile al cosiddetto Gruppo di Mistretta.
Le indagini, delegate dalla Procura di Catania alla Dia di Messina, coordinata dal Centro Operativo di Catania, completano gli accertamenti patrimoniali che avevano già permesso di confiscare, in via definitiva, alla famiglia Scinardo beni per complessivi 200 milioni di euro durante le operazioni denominate Belmontino e Malaricotta.
Secondo gli investigatori Giuseppe Scinardo, originario di Capizzi, ma stabilitosi da molti anni con il suo nucleo familiare a Militello Val di Catania, già dai primi anni ‘90 avrebbe avuto stretti legami con la famiglia Rampulla, di Mistretta, in particolare con i fratelli Sebastiano, deceduto, già rappresentate nel paese della famiglia di cosa nostra, Maria e Pietro. Quest’ultimo è stato condannato all’ergastolo perché ritenuto l’artificiere della strage di Capaci, per aver confezionato sia l’ordigno che esplose nel cunicolo dell’autostrada Palermo – Trapani che il telecomando che venne utilizzato per compiere l’attentato al giudice Falcone.